Sei fotografie di William Eggleston

William Eggleston commenta alcune delle sue fotografie durante un’intervista concessa nel 2016 al giornale inglese The Telegraph, in occasione della mostra William Eggleston: Portraits presso la National Portrait Gallery di Londra.

“Sono concentrato nell’organizzare ciò che entra nell’inquadratura, ogni più piccolo dettaglio” dice il fotografo americano. “Ho una regola personale: non più di uno scatto alla volta” – aggiunge – “e non ho mai pensato che avrei potuto scattarne qualcuna in modo diverso. Succede semplicemente che la prima sia quella buona”.

Untitled, circa 1970-1973

“Non so chi sia questa donna, l’ho vista per strada. Non so mai cosa sto cercando finche non lo noto: le immagini semplicemente appaiono, dovunque io mi trovi. In questo caso penso di essere stato attratto dall’arancione luminoso del suo vestito. Non stava sollevando la mano per via della mia presenza, ma penso di essermi accorto, almeno inconsciamente, della ripetizione prodotta dalla sua ombra: l’ombra doveva entrare nell’inquadratura.

Untitled, circa 1969-71 (Memphis)

Ho scattato questa fotografia di fronte alla scuola di musica dell’Università di Memphis. Stava aspettando una macchina che veniva a prenderla. Ricordo che stava studiando quel mucchio di spartiti che ha sulle ginocchia. Non abbiamo scambiato neanche una parola, me ne sono andato prima che potesse dirmi qualcosa ed è stato tutto così rapido che lei non poteva nemmeno essere sicura che io avessi scattato la foto. Non mi sono mai imposto di portarmi dietro una macchina fotografica, ma di solito ne avevo sempre una con me.

Untitled, circa 1971 (William Eggleston III)

Questo è mio figlio maggiore, si chiama anche lui William. Eravamo a casa dei nonni, doveva avere più o meno sei anni. Ho scattato la foto di notte, tardi, stava dormendo profondamente. Molte stanze della loro casa erano dipinte con quel verde scuro. Mi piaceva la sua posizione nel letto, ma forse c’era qualcosa anche nei colori. Non so mai se sono attratto da un colore piu che da un altro. Alcuni sono difficili: il rosso, per esempio, sembra sempre dominare tutti gli altri.

Untitled, ca.1970 (Devoe Money in Jackson, Mississippi)

Questa è Devoe, una mia lontana parente (non so nemmeno come) ma è anche un’amica. Adesso è morta, ma allora eravamo molto amici. Era una donna dolce e incantevole. Questa foto l’ho scattata in un angolo del cortile di casa sua. Andavo spesso a Jackson a farle visita. Mi hanno colpito il colore del suo vestito e quello del divano, e tutto è filato in un attimo. Credo che questa sia l’unica fotografia che le ho fatto, ma direi che la riassume. Non l’ho messa in posa, non lo faccio mai, di solito perché tutto accade molto rapidamente, ma non l’avrei comunque spostata in alcun modo. Questa foto mi piace ancora adesso.

Untitled, ca. 1973-4 (Randall Lyon in Memphis)

Randall era un mio vecchio amico dell’Arkansas. E’ morto per un’overdose. Avevamo quasi la stessa età e occasionalmente mi aiutava occupandosi delle luci: i posti che andavamo a fotografare erano piuttosto bui. Avevo una piccola torcia tascabile e gli dicevo: ‘Randall puntala laggiù’. Era un uomo intelligente, molto gentile. Mi piace questa foto perché sembra che stia pregando. Forse stava pregando di sentire ancora un po’ di Bach al piano…

Untitled, ca.1965-1969

Questi sono due estranei. Gli sono passato affianco ed ecco che c’era la fotografia. Come al solito ho scattato in fretta e non ci siamo parlati. Penso di essere stato fortunato a cogliere l’espressione sul viso della donna. Molte di queste fotografie che scatto sono di soggetti comuni e insignificanti. Non so se si possa imparare a ‘vedere’. Penso che uno nasca con la capacità di comporre un’immagine, così come un altro nasce con la capacità di comporre musica. Comunque è molto più importante pensare all’aspetto delle fotografie, piuttosto che parlarne e cercare un significato. L’immagine grafica e le parole… beh sono due cose molto diverse”.

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Tratto da William Eggleston: the stories that inspired David Lynch’s favourite photographer, di L. Davies, www.telegraph.co.uk

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